L’ultima finanziaria al comma 557 innalza il numero minimo di alunni delle istituzioni scolastiche a 900 studenti: ne hanno parlato molto i giornali nel mese di dicembre, poi la notizia è scomparsa dalle cronache nazionali per ricomparire – a fine gennaio – nelle cronache locali, con elenchi di scuole di cui si paventa il taglio. Poi, più niente.
La questione però rischia di avere un grande impatto sulla scuola pubblica nei prossimi anni e – contrariamente alla percezione generale che tutta l’operazione sia rinviata di un anno – i mesi decisivi per l’attuazione del piano nel settembre 2024 sono proprio questi: da aprile a giugno 2023.
Ad aprile lo schema di D.I. è stato trasmesso dal Ministero dell’Istruzione e del Merito alla Conferenza Unificata in modo da giungere ad un accordo e all’emanazione del successivo Decreto Interministeriale entro il 31 maggio 2023. Se non si raggiunge l’accordo con le regioni, il MIM (ministero istruzione e merito) e il MEF (ministero economia e finanza) emanano un decreto interministeriale entro il 30 giugno per stabilire i contingenti di Dirigenti scolastici e DSGA che corrispondono al numero di scuole con autonomia scolastica. A che punto siamo?
A febbraio si è acceso lo scontro tra le Regioni guidate dal centrosinistra e il Governo di centrodestra: per prima è stata la Regione Campania, seguita Puglia, Toscana e Emilia Romagna hanno fatto ricorso davanti alla Corte Costituzionale contro il provvedimento. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha sempre difeso la scelta del governo dichiarando che è motivata dalla necessità di “osservare i vincoli dell’UE in attuazione del PNRR”. E’ vero che il nuovo parametro di dimensionamento è collegato al PNRR: è la riforma 1.3 della missione 4, componente 1 (una delle dieci riforme del PNRR) ed è basata su due aspetti strategici: “il numero degli studenti per classe e il dimensionamento della rete scolastica”. Ma mentre sul numero degli studenti per classe rimangono validi i parametri stabiliti per decreto nel 2009 dal ministro Gelmini, quelli che hanno permesso la formazione di “classi pollaio”, per quanto riguarda la rete delle istituzioni scolastiche si prevede, attraverso la norma della finanziaria, l’innalzamento a 900 alunni/e del parametro per ottenere l’autonomia scolastica. Non risulta però alcuna disposizione europea che imponga questa scelta, che quindi è una decisione del dicastero e del governo, e L’Europa sembra solo la scusa per giustificare la manovra ai danni della cittadinanza.
La relazione tecnica della finanziaria spiega che nell’anno scolastico 2024-25 le istituzioni scolastiche dovranno essere 7461 ed in ogni caso – anche tenendo conto di comuni montani, piccole isole e aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche – non potranno essere più di 7.519. Oggi le scuole sono 8.136 (8.007 istituzioni scolastiche e 129 Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) con 40.466 sedi. Quindi nel 2024-25 si prevedono dalle 675 alle 617 scuole tagliate e nei sette anni successivi altre 633 scuole, riducendo il numero totale di istituzioni scolastiche a 6.886. In conclusione il governo Meloni vuole tagliare circa 650 scuole nei primi due anni e 1.250 scuole entro i sette anni successivi, creando scuole con dimensioni sempre più grandi e con plessi sparsi su un ampio territorio.
La bozza di decreto trasmessa ad aprile alla Conferenza stato-regioni non è stata resa pubblica: però troviamo molti dati riportati nella mozione contro il dimensionamento presentata dal Movimento 5 stelle alla Camera (la mozione è stata bocciata il 18 aprile). La regione più penalizzata è la Campania, seguita Sicilia. Ecco l’elenco completo, in ordine decrescente. Per ogni regione sono indicate il numero di istituzioni scolastiche attuali, quelle previste e il numero di scuole tagliate. Campania: passa da 985 a 839 istituzioni scolastiche (-146), Sicilia: da 819 a 710 (-109), Calabria: da 360 a 281 (-79); Puglia: da 635 a 569 (-66); Sardegna: da 273 a 228 (-45); Lazio: da 722 a 685 (-37); Veneto: da 592 a 560 (-32); Basilicata: da 115 a 84 (-31); Marche: da 233 a 210 (-23); Toscana: da 476 a 455 (-21); Lombardia: da 1135 a 1115 (-20); Piemonte: da 540 a 520 (-20); Liguria: da 188 a 170 (-18); Emilia-Romagna: da 534 a 519 (-15); Abruzzo: da 193 a 179 (-14); Friuli Venezia Giulia: da 167 a 155 (-12); Umbria: da 139 a 133 (-6); Molise: da 52 a 49 (-3). Ovviamente, il documento non è definitivo, è una bozza in elaborazione ma dà il quadro della direzione verso cui si stanno muovendo, con una prospettiva di 697 scuole da tagliare. Dobbiamo anche essere consapevoli che sarà una battaglia di lunga durata: non solo perché il piano si conclude nel 2032 ma anche perché le circa 1250 scuole che prevedono di tagliare non coincidono con tutte le scuole che – già oggi – non soddisfano il parametro minimo di 900 alunni/e, che sono in realtà molte di più. Solo per fare un esempio, in Toscana il piano prevede di tagliare 20 scuole subito e presumibilmente altre 20 entro il 2032, ma dai nostri calcoli già oggi le scuole che in Toscana sono sotto i 900 alunni sono circa 100 e aumenteranno nei prossimi anni con il calo delle nascite. Adottare questo parametro con un trend di riduzione della natalità significa mettere un ipoteca su un numero altissimo di scuole. Negli anni passati il meccanismo del dimensionamento è servito a ridurre le scuole distribuite sul territorio, impoverendo le risorse per le comunità e si è fermato solo quando sono state tagliate le scuole sotto il parametro. Quando l’operazione è iniziata, nel 1998 c’erano 12.687 istituzioni scolastiche, dieci anni dopo, nel 2008/2009 erano state ridotte a 10.702. Nel 2011 il ritocco del parametro minimo da 500 a 600 alunni si è tradotto in una ripresa dei tagli e nel 2016-17 le istituzioni scolastiche si erano ridotte a 8281, un numero che rimane grossomodo stabile fino ad oggi. Negli anni della pandemia sono stati leggermente abbassati i parametri minimi (500 alunni e 300 nei comuni montani, nelle piccole isole e nelle aree geografiche con specificità linguistiche) ma solo per gli anni scolastici 2021/2022, 2022/2023 e 2023/2024 e senza mai abbassare il numero degli alunni per classe.
I danni prodotti da 20 anni dal 1998 ad oggi sono sotto gli occhi di tutti. Un piano davvero finalizzato al rilancio della scuola dovrebbe invertire questo processo e utilizzare il calo demografico per ridurre in modo significativo il numero di alunni per classe e le dimensioni delle scuole. Invece il governo Meloni fa l’esatto contrario.
Le conseguenze di questa scelta politica colpiranno in modo differenziato i territori aumentando i divari: sono illuminanti le tabelle pubblicate nella Relazione tecnica della finanziaria. Le conseguenze saranno più pesanti per alcune regioni, quelle che hanno un’incidenza più bassa di popolazione nella fascia tra i 3 e i 18 anni: sono l’Abruzzo, la Basilicata, la Campania, la Calabria, le Marche, il Molise, la Puglia, la Sardegna, la Sicilia, la Toscana e l’Umbria. In pratica, tutto il Sud, le isole e il centro. Non a caso queste regioni le troviamo in cima alla lista nella bozza in discussione nella Conferenza unificata, con il maggior numero di scuole da tagliare. L’altra situazione di emergenza sarà legata alle realtà dei comuni di piccole dimensioni, cioè fino a 7-8.000 abitanti (e sono migliaia in tutta Italia!!!) Questi comuni infatti nella maggior parte dei territori non sono in grado di avere una popolazione scolastica di almeno 900 alunni/e. Sono destinati quindi a diventare “comuni senza scuola” e a contendersi la sede principale dell’istituzione scolastica con i comuni vicini per fermare la riduzione del numero degli abitanti. Le scuole dei grandi comuni, d’altro canto, sono già in sofferenza perché hanno numeri superiori ai mille alunni e molti plessi.
La scelta di creare mega-scuole non solo non ha alcuna ricaduta utile dal punto di vista didattico ma anche dal punto di vista organizzativo: gli organici delle segreterie e dei collaboratori scolastici aumentano (poco) in base al numero degli alunni senza tenere conto dei plessi, le attuali tabelle per la formazione degli organici ATA sono assolutamente inadeguate, sia per le segreterie che per i collaboratori scolastici: situazione resa ancora più esplosiva dalle norme che impediscono la nomina del supplente in caso di assenza. Questo sarà un altro dei punti dolenti: l’organico del personale ATA assolutamente insufficiente per gestire scuole con un sempre maggiore numero di plessi. Ad oggi, ci sono 40.466 sedi: è già un problema. Figuriamoci quando questi plessi dovranno essere aggregati in un numero sempre decrescente di istituzioni scolastiche! Se non viene invertita questa scelta, l’unica soluzione sarà arrivare alla riduzione dei plessi. Per tutto il personale della scuola, docenti e ata, l’aumento delle dimensione della scuola si traduce in un aumento dei carichi di lavoro e in un peggioramento della qualità. Venti anni di scuola-azienza e tre anni di pandemia avrebbero dovuto insegnare che privare i territori della presenza delle scuole è una scelta sbagliata sotto tutti i punti di vista.
L’intera operazione alla fine frutterà un risparmio modesto: 88 milioni di euro a regime, nel 2032. Se si pensa che solo per le linee di investimento del PNRR destinate al recupero della dispersione e all’orientamento sono stati stanziati 500 milioni di euro è subito evidente che il taglio non è funzionale ad un mero risparmio ma ha come obiettivo la destrutturazione della scuola pubblica statale per fare terra bruciata dell’idea di scuola come bene pubblico. E’ un tassello del piano che parte da lontano, dall’autonomia scolastica e dalla legge di parità, che si è dispiegato in 40 anni di neoliberismo applicato alla scuola e che vede la sua realizzazione anche con l’attuazione dell’autonomia differenziata, lo stravolgimento della Costituzione, la privatizzazione di scuola e sanità e di quello che resta dello stato sociale. Dobbiamo opporci a questo piano e provare ad ostacolarlo in ogni modo sia come lavoratori/trici della scuola sia come cittadini, dobbiamo trovare nella società tutte le alleanze utili a contrastare l’attuazione del progetto. Possiamo trovare al nostro fianco in questa lotta genitori, studenti e società civile in generale, dobbiamo riattivare tutti i canali possibili in questo senso, attrezzandoci per una battaglia di lunga durata.
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